(a cura di Andrea Gropplero - materiali Cinecittario: Archivio Luce)
Per fortuna c’è ancora la Puglia, la regione che dà forma all’Italia. La forma geografica, ovviamente: senza il “tacco” l’Italia non sembrerebbe uno stivale. Conquistata dai romani contribuì alla letteratura latina con scrittori come Livio Andronico, Quinto Ennio e Marco Pacuvio, Cicerone vi scrisse le Lettere brindisine e Virgilio a Brindisi vi morì. Con un insediamento umano che risale a 80 mila anni fa, la Puglia è uno dei siti paleolitici più importanti d’Europa. Oggi la qualità della vita, la ricchezza e la varietà degli scenari e la sua cucina, che è una autentica miniera della dieta mediterranea, ne fanno una delle mete turistiche più ricercate d’Europa.
Stampa itinerarioC’era una volta (1967), il film di Francesco Rosi girato tra Gravina e il Tavoliere delle Puglie, è una favola liberamente tratta da Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile. Il novelliere barocco napoletano fu il primo ad usare la favola come forma di espressione popolare. Dalla sua opera più importante, in tempi più recenti Matteo Garrone ha tratto il film Il racconto dei racconti (2015).
Nella Puglia appartenente al Regno di Napoli, vive la bella popolana Isabella Candeloro (Sophia Loren), di cui si innamora il principe Rodrigo Fernandez (Omar Sharif). Il re di Spagna gli ha imposto di sposarsi nel giro di una settimana. Dopo diverse traversie e grazie all’aiuto di San Giuseppe da Copertino, l’amore tra il principe e la popolana trionferà. Il Santo infatti apparirà al principe, consegnandogli della farina con cui farsi preparare sette gnocchi dalle pretendenti mogli e solo qualora fosse riuscito a mangiarli tutti avrebbe trovato la donna giusta. Isabella preparerà gli gnocchi, buonissimi, fatti di farina, acqua e sale (come gli gnocchetti tipici pugliesi), di forma generosa, schiacciati al centro per raccogliere meglio il sugo, una specie di orecchiette della dimensione di tre centimetri per due. Isabella è un’ottima cuciniera e in questa favola a sfondo gastronomico gioca da protagonista.
Il Santo apparirà in un secondo momento anche ad Isabella, indicandole il da farsi per conquistare il principe: entrare come cuciniera e lavapiatti al servizio del monzù, il cuoco di corte del principe. Il monzù è una figura molto in voga in tutta l’Europa del Seicento, il nome deriva da monsieur, i cuochi della corte e delle famiglie nobili francesi. La figura del monzù, cuoco di corte e gran maestro di cerimonia, si diffonderà nel regno di Napoli sotto la guida degli Angiò: a lui vengono affidate le sorti dei banchetti e delle cerimonie più importanti e la sua bravura si rifletterà direttamente sull’importanza sociale della famiglia. Nessun film prima di questo ha dato del monzù una descrizione così precisa, anche se il nostro è sì famoso ma pasticcione e sfortunato, perché un gruppo di streghe, per aiutare Isabella a conquistare il principe, rovinerà i suoi elaboratissimi piatti con degli incantesimi.
I basilischi (1963), capolavoro di Lina Wertmuller, comincia con una famiglia del Sud, in una casa del Sud, con le pareti bianche e spoglie – accentuate dal magnifico bianco e nero delle riprese di Gianni Di Venanzo – mentre seduta a tavola mangia di gusto. Cosa mangia? Si direbbe dall’avidità con cui i commensali consumano il pasto che si tratti di orecchiette alle cime di rapa, forse con la variante della salsiccia. Uno dei più begli esordi al cinema di sempre, quello di Lina Wertmuller che ambienta il film quasi interamente tra Minervino Murge e Spinazzola. I basilischi (in greco: reucci) sono i giovani di paese che tra una vasca lungo la via principale del paese, un timido corteggiamento, due fette di salame piccante, qualche strampalato annuncio di un progetto improbabile, passano le giornate tutte uguali le une alle altre. Il film ricalca le orme de I vitelloni (1953) di Federico Fellini, di cui Lina Wertmuller è stata aiuto regista in 8 1/2.
Il racconto di una apatia senza sogni, di una vita improntata ad una decorosa sopravvivenza dei tre protagonisti, Antonio (Antonio Petrucci), Francesco (Stefano Satta Flores) e Sergio (Sergio Ferraino), viene improvvisamente interrotta dall’arrivo a Minervino Murge della zia di Antonio. La donna arriva in paese a bordo di un’auto decapottabile con il marito ed una amica snob con la cinepresa che riprende gli abitanti del paese come fossero animali allo zoo. La donna chiede ad Antonio della rivolta dei braccianti di Cerignola del ’47, di cui il giovane non sa nulla, anche se Cerignola si trova a pochi chilometri da Minervino Murge. I tre convinceranno Antonio a partire per Roma e a iscriversi all’università nella capitale. Ma il giovane, fatto ritorno in paese per prendere i documenti necessari all’iscrizione universitaria, deciderà di fermarsi, accudito dall’accidia delle abitudini e dalle orecchiette di mammà.
Mio cognato (2003) è il secondo film ambientato nella sua città dal regista barese Alessandro Piva, realizzato dopo il folgorante esordio con La capagira (1999), David di Donatello e Nastro d’argento come miglior regista esordiente nello stesso anno. Durante il battesimo del figlio di Vito (Sergio Rubini), imprenditore barese con amicizie nella malavita, al cognato Toni (Luigi Lo Cascio) viene rubata l’auto. Da lì, con la festa rovinata e il palese disappunto di Vito, i due cominciano un frenetico tour in una Bari notturna, alla ricerca del veicolo rubato. Così tra diverse vicissitudini e uno scontro frontale con la malavita locale, il rapporto tra i due cresce. Tra una frisella pomodoro, olio e basilico e una passata di pomodoro fatta in casa, i due all’alba ritroveranno l’auto ma anche un epilogo drammatico.
La cucina pugliese è apparentemente frugale perché i suoi ingredienti principali sono il grano duro, l’olio, le tantissime verdure dell’orto, i pesci dei due mari che la bagnano – a est l’Adriatico e a sud lo Ionio – ed il vino. Una frugalità che era il modello alimentare delle cucine dell’antica Grecia e di Roma, le due più importanti occupazioni subìte da questa regione. Ma nella cultura, e quindi nella cucina tradizionale, ci sono tracce significative anche del passaggio di bizantini, arabi, svevi e spagnoli.
Se le università statunitensi (e non solo) ritengono quella mediterranea (di cui la Puglia è probabilmente l’interprete migliore) la cucina più salutare in assoluto, la ragione può essere individuata nel fatto che i suoi abitanti (oggi ne conta quasi 4 milioni) sono operosi contadini, pastori, pescatori che fin dalla notte dei tempi riescono a utilizzare con genialità – e altrettanta semplicità – i prodotti a loro disposizione. Il risultato è una cucina rigorosamente stagionale fatta di sapori e sfizi, di profumi e di particolarità, praticata con amore e passione, con tradizione e con sapienza tramandata di bocca in bocca, di madre in figlia. Tutte caratteristiche frutto essenziale di una storia antichissima: la prima presenza umana accertata è infatti quella del cosiddetto uomo di Altamura, una forma arcaica di uomo di Neanderthal vissuto 250 mila anni fa. Intorno al primo millennio a.C. questa terra generosa venne abitata dai Dauni, dai Peucezi e dai Messapi, popoli di probabile origine illirica. Più tardi, in epoca ellenica, la regione divenne una delle parti della Magna Grecia.
Una storia lunga e affascinante, con ognuna delle epoche presente in maniera evidente e significativa sul territorio e di cui questa semplice e altrettanto geniale cucina rappresenta una efficace sintesi.
Ricetta di puglia.com
INGREDIENTI
PREPARAZIONE
La preparazione delle orecchiette con cime di rapa è semplice, si tratta infatti di un piatto poco impegnativo. Importante è la fase di acquisto delle materie prime, bisogna infatti scegliere le cime di rapa non fiorite e con le foglie verdi.
Per chi volesse realizzare un trailer fai da te su C’era una volta la Puglia dei basilischi proponiamo questo gioco, dando le indicazioni di entrata e di uscita dai film. Basterà usare un qualunque programma di montaggio ed inserire sulla time-line i dati dei film che vi proponiamo di seguito ed in pochi minuti il gioco sarà fatto.