Il Vesuvio fabbrica tutte le nuvole del mondo.
(Jean Cocteau)
VENEZIA - Un racconto di storie e di vite sotto le falde del Vesuvio, Sotto le nuvole di Gianfranco Rosi, film documentario in Concorso a Venezia e in sala dal 18 settembre con 01 Distribution. Un viaggio all’interno di un territorio, dove protagonisti sono i Campi Flegrei e la città di Napoli. Sullo sfondo il Vesuvio, inquadrato controcampo, che diventa perno sentimentale e chiave di lettura del film: una sorta di divinità di roccia imponente, monito vivo della ciclicità della natura che sovrasta tutti e tutto crea, distrugge e trasforma.
Un film tutto fatto di luoghi e spazi che racchiudono chi li abita: "L’esterno di questo film è un susseguirsi di cieli e nuvole, di fumarole che strisciano di gas l’aria - racconta Rosi - mentre la circumvesuviana, come una lunga inquadratura in movimento, disegna e unisce il territorio, una cerniera di binari". Frutto di tre anni di lavoro sul territorio. Tre anni di incontri diventati film in un lungo lavoro di avvicinamento, necessario a creare la giusta fiducia e profondità sentimentale al racconto dei protagonisti:
“Con ogni persona serviva costruire un rapporto che si dilatasse nel tempo. Non ho mai consumato una storia in breve tempo: le storie che durano si allungano, mutano, interagiscono con la vicinanza e con una fiducia che si rafforza lentamente. Tutto questo è stato quasi erodibile, inaspettato, ma fondamentale per dare profondità al progetto”.
Napoli, il Golfo, Pompei, Ercolano, il sottosuolo, la circumvesuviana, sono la scena di un racconto fatto di storie di vite diverse. in cui la sfida è "assecondare l’inquadratura, mentre le storie prendono vita". Storie di chi quei posti li vive, come i gesti di cura della conservatrice di un museo; le parole e le azioni rassicuranti dei Vigili del Fuoco, quelle di un maestro di strada nel suo doposcuola a Torre Annunziata. O le vite di giovani marinai imbarcati su navi siriane che trasportano grano ucraino per il nostro pane e la pizza. Di archeologi giapponesi che indagano un passato fatto di rovine, semi, ossa di animali.
La cosa più difficile, racconta Rosi, è stata far combaciare tutte queste storie così differenti, che appartengono l’una all’altra senza legami apparenti, e scoprire alla fine, nel montaggio, che insieme compongono una parte fondamentale del racconto.
“Mi sono sempre chiesto: cosa lega queste storie così diverse tra loro? Forse è il senso di devozione che attraversa tutti i personaggi: la devozione laica, la devozione pagana, la devozione alla comunità".
Questo elemento di darsi agli altri è ciò che unisce tutti. Tutti i personaggi sono “devoti” a qualcosa: un’idea, una verità, un gesto, una memoria. Una devozione che non ha connotati religiosi nel senso stretto, ma è Uua forma di abbandono e, al tempo stesso, di resistenza, che assume nei gesti reiterati e sincronici un carattere rituale, a tratti sacrale, tratto caratterizzante dell'estetica narrativa di Rosi.
"Come diceva Napoleone, la civiltà inizia nel momento in cui ognuno dà qualcosa all’altro. A Napoli ho visto questo ogni giorno, in ogni ricordo, in ogni situazione, soprattutto con le persone e i personaggi che hanno fatto parte del tessuto del film. Forse questa è la vera colla che tiene insieme tutte le storie apparentemente lontane”.

Un film completamente girato in bianco e nero, a dispetto della caleidoscopica esplosione di colori che si associa immediatamente nell'immaginario alla città di Napoli. “È stata una delle prime certezze che ho avuto, già prima di scrivere il soggetto”, conferma Rosi nel rimarcare come la scelta sia stata una delle autentiche strutture portanti del progetto, che “forse nasceva dalla paura di affrontare tutti gli elementi che caratterizzano Napoli. Un modo per mitigarli, per allontanare dalla città tutte le contraddizioni”.
Una scelta che ha imposto non solo uno sguardo differente sulla città, ma anche una diversa tecnica di ripresa: “Ho dovuto imparare a osservare in bianco e nero, a leggere le luci, a guardare le cose in modo diverso. Bianco e nero è anche legato alle nuvole: mi sono reso conto che girare in bianco e nero con una giornata di sole è praticamente impossibile, perché si creano contrasti eccessivi e si perdono molti dettagli iniziali. Le nuvole, invece, permettono di creare una narrazione più grigia, con contrasti più controllati, trasformando la realtà e invitando lo spettatore a interpretarla in modo differente”.
Così, sia durante le riprese sia nella visione finale, c’è sempre una trasformazione: una narrazione che diventa viva, reale, mai completamente prevedibile”.